LACTO-OVO VEGETARIAN

La vera dieta vegetariana
normale, completa,
sana, naturale,
preventiva,
senza carenze,
senza ipocrisie,
senza fanatismo,
secondo la Tradizione
e la Scienza più moderna

24 aprile 2011

Latte, yogurt e latticini: protettivi anti-diabete e anti-colesterolo.

yogurt e frutta di bosco Un supplemento alla normale dieta quotidiana di 3 tazze da 240 ml di latte o yogurt, dopo appena una settimana riduceva la colesterolemia del 5-10%. Si era nel lontano (scientificamente parlando) 1979. Siete stupiti, increduli? Vuol dire che siete disinformati, perché queste sono quisquilie rispetto alle molte scoperte di oggi sui tanto bistrattati latticini, accusati di essere molto ricchi di grassi. I nuovi studi ne fanno una categoria di alimenti non solo di altissimo livello biologico-nutrizionale, ma anche sana e perfino preventiva. 

Per dirne una, studi epidemiologici su molte migliaia di persone hanno provato che più alto è il consumo di panna e latticini grassi, più si riduce il rischio di diabete del tipo 2, quello alimentare, e grazie proprio agli acidi grassi saturi a catena corta e media di cui i latticini sono ricchi (v. di seguito). Ma erano ancora più meravigliati i lettori nel lontano 1979, quando fu reso noto l’esperimento delle 3 tazze di yogurt in più – e allora non esisteva quello con lo 0% di lipidi! – sui 54 volontari, condotto da G. Hepner. L’effetto infatti era maggiore se al latte si sostituiva lo yogurt, quello intero, al 3,5% di lipidi, con fermenti di L. bulgaricus e S. termophilus (Am J Clin Nutr 32,19-24,1979). 
Vecchi tempi. Ma quella tendenza negli studi è stata confermata ed è sempre attuale. I grassi possono incidere (favorevolmente) sul metabolismo del glucosio e sull’origine del diabete di tipo 2; oltre che (sfavorevolmente) sullo sviluppo e sulla diffusione del sovrappeso, se assunti in eccesso. 

Anche se, su quest'ultimo punto, i consumatori dovrebbero ricordare (be’, veramente questo lo sanno in pochi…) che due categorie dei latticini sono povere di grassi. Latte e yogurt sono di per sé alimenti "magri", anche quando sono “interi”, col loro 3,5% circa di lipidi. Senza contare che oggi la tecnologia, come accennato, permette di eliminare tutto il grasso (yogurt a “zero grassi”) pur conservando proteine, sali minerali e il sapore pannoso. Indiscutibile, però, che molti tipi di formaggi, per non parlare di panna, mascarpone e burro, sono molto ricchi di grassi, e per di più saturi, cosicché possono diventare, se consumati in aggiunta ai pasti o in eccesso, una aggravio nutrizionale e calorico.

Oggi, invece, si tende a "riabilitarli", non solo da parte dei nutrizionisti (che, a dire il vero, per i latticini hanno sempre avuto la giusta considerazione, purché assunti in consumi normali, cioè moderati, secondo le porzioni prevista), ma anche dai clinici patologi. Anzi, come si è constatao perfino nelle diete con restrizioni caloriche per soggetti in sovrappeso o per ridurre la fame interprandiale nella giornata (molto indicata pare la ricotta e il latte a colazione, si vedano due nostri articoli), è sbagliato e pure dannoso in certi casi privarsi dei latticini. Eppure, tutti sanno, ed è dimostrato da molti studi, che la sostituzione di grassi saturi con gli insaturi può essere favorevole alla salute e alla prevenzione dei rischi cardio-vascolari e metabolici, e che i cibi vegetali sono spesso una scelta migliore degli alimenti di origine animale. Tuttavia, tenetevi fermi e prendete un calmante: vari studi epidemiologici hanno suggerito il ruolo protettivo dei latticini, almeno rispetto al diabete alimentare.


Uno studio follow-up svedese su 26.930 persone (61% donne) di 45-74 anni seguite per 14 anni, ha appurato che i consumi di prodotti lattiero-caseari ad alto contenuto di grassi risultavano inversamente associati al diabete di tipo 2. Una correlazione inversa ancora più stretta è stata notata per i consumi di panna e yogurt grassi, e per il formaggio nelle donne. Invece, curiosamente, un alto consumo di prodotti lattiero-caseari a basso contenuto di grassi (i famigerati latticini “light”) è stato associato ad un aumento del rischio, ma questa associazione scompariva dopo gli aggiustamenti statistici.


E fa pensare che l’associazione significativa inversa riscontrata, cioè la diminuzione del rischio, non è tra diabete e grassi totali in genere, ma tra diabete e alcuni particolari grassi saturi, tipici di latte, panna e latticini, i benèfici acidi grassi saturi a catena corta, ritenuti protettivi anche da colesterolemia e malattie cardio-vascolari. Si tratta dei noti SCFA o short-chain fatty acids, con 4-10 atomi di carbonio nella molecola, cioè l’acido butirrico (il miglior nutrimento-medicina del colon: oltre che dai latticini si ottiene per sintesi dalla fermentazione batterica nel colon delle fibre, per lo più solubili, di cereali integrali e legumi ), caproico, caprilico e caprinico; e anche gli acidi laurico (12:0) e miristico (14:0), grassi saturi a catena media. [Ma il miristico era stato da altri ritenuto a catena lunga, e collegato in vecchi studi - su pochi soggetti - a più alto rischio (Zock et al., 
Arter Thromb & Vasc Biol 1994,14: 567)]. Insomma, il suggerimento dello studio svedese è che l’associazione protettiva (rischio minore) tra latticini e diabete 2, già osservata in precedenza, sia dovuta proprio ai grassi, e a quei grassi particolari, dei latticini stessi, dal latte allo yogurt, dalla ricotta alla panna e ai formaggi. Invece, il consumo di carne, oggi considerato ormai un cibo magro, era collegato a un più alto rischio diabetico, qualunque fosse il contenuto di grassi (Ericson et al. 2015).
ERICSON U. et al. Food sources of fat may clarify the inconsistent role of dietary fat intake for incidence of type 2 diabetes. Am J Clin Nutr doi: 10.3945/ajcn.114.103010 (april 2015).
Eppure, studi scientifici come questi sembrano ancor oggi incredibili, con tutte le falsità che propagandano i fanatici della “campagna anti-latte”, per i quali “screditare” i latticini è diventata una missione religiosa, una ossessione psicotica. E perfino certi divulgatori o nutrizionisti, solo perché alcuni non digeriscono bene il latte (ma il lattosio in molti latticini è minimo) lo riducono o vietano a tutti; mentre i macrobiotici e i fanatici fondamentalisti lo avversano per motivi filosofici non accettando la Storia (*) né l’origine antropologica del cibo, vera e propria invenzione dell’Uomo [v. articolo sulla trasmissione genetica dell’enzima lattasi, che è una conferma dell’uso del latte da parte della Natura], o con la scusa etica degli allevamenti intensivi. Ma non lo berrebbero neanche se provenisse da una capretta libera di vagare per prati in un allevamento naturale. E d’altra parte non si curano di altre, molto più gravi aggressività e violenze quotidiane. Ecco perché la “campagna” di disinformazione sul latte diffonde su opuscoli alternativi e articoli di internet i casi di intolleranze e i pochi studi negativi. E ancor più grave è la scorrettezza di quei ricercatori epidemiologi che per inesperienza nutrizionistica mettono nel medesimo calderone statistico tutti i consumi di “grassi animali”, insomma il latte insieme col lardo, condannando anche l’incolpevole latte che oltretutto, anche quando intero, è dotato di pochissimi grassi (solo il 3,5%), allo stesso destino di salumi, carni grasse, bacon fritto e burro cotto. Il che non è scientifico. Senza contare, infine, che il latte a differenza di questi altri alimenti animali, contiene parecchi principi protettivi.

E, tornando appunto ai fattori protettivi del latte, quei vecchi studi che dicevamo sopra erano fondati, e sono stati poi confermati. Avevano visto giusto i ricercatori G.V. Mann e e A. Spoerri nel 1974 in un famoso studio sul popolo Masai, in Africa, a ipotizzare che un qualche “milk factor”, un imprecisato “fattore del latte”, potesse proteggerli dall’ipercolesterolemia, nonostante che la loro dieta fosse ricca di grassi saturi, probabilmente agendo sul metabolismo lipidico. Come è riportato nel mio Manuale di Terapie con gli Alimenti (p.171), i Masai consumavano allora, tra yogurt e latte fresco, circa 5 litri al giorno, eppure avevano meno colesterolo nel sangue degli Occidentali (Am J Clin Nutr 27,464-469,1974; Atherosclerosis 26,335,1977).


Ma perché il latte protegge? Per A. Endo, sarebbe non un grasso, ma lo zucchero del latte, il lattosio, ad abbassare il livello di colesterolo nel sangue. Una review di T. Richardson confermò che l’effetto anti-colesterolo su volontari americani e inglesi si aveva sia col latte intero, sia con quello scremato. E presero corpo anche altre ipotesi, da quella di una sostanza non proteica capace di inibire il coenzima CoA-reduttasi-HMG (idrossimetil-glutarato) che sintetizza il colesterolo endogeno, fino all’acido orotico contenuto nel latte dei ruminanti (73-122 mg/L nel latte vaccino, 34-46 mg/L nel suo yogurt, ma ce n’è di più nei latti di capra e di pecora), che aveva mostrato in vari studi di laboratorio un marcato effetto anti-colesterolo modificando il metabolismo dei grassi grazie all’inibizione nel fegato della sintesi delle b-lipoproteine. Gli italiani G. Biscarro e E. Bellone furono tra i primi a studiare questa sostanza. Oggi, però, di acido orotico tra i ricercatori non si parla più, forse perché l’industria farmaceutica lo ha isolato come integratore commercializzandolo abusivamente come “vitamina” B13, e in questa forma si è rivelato in laboratorio addirittura un promotore tumorale.


Eppure, alcuni dietologi e clinici specialistici ancora si ostinano a guardare al latte e ai suoi derivati con sospetto o addirittura con ostilità, per il rischio, ancora tutto da dimostrare, di un loro collegamento con malattie cardiovascolari e colesterolo alto dovuto ai suoi acidi grassi in parte saturi. Una contraddizione stridente con i tanti studi che provano le caratteristiche preventive del latte e dei latticini. Ed è bene che medici di base e cardiologi si aggiornino, tenendo conto delle scoperte scientifiche epidemiologiche o osservazionali, piuttosto numerose e quindi ormai inoppugnabili, che provano le proprietà protettive del latte.


Vista l’azione positiva sul metabolismo dei grassi, non meravigliamoci, perciò, se latte, yogurt e latticini mostrano in studi recenti anche una marcata attività anti-diabete. L’ennesima ricerca sul tema è stata pubblicata su Annals of internal medicine e sostiene che chi consuma prodotti lattiero-caseari ha molto meno probabilità di andare incontro al tipo 2 di diabete, quello più legato alle abitudini alimentari e all’età.


Secondo lo studio, eseguito su 3736 pazienti, chi segue una dieta con latte e latticini non solo ha livelli più bassi di colesterolo LDL, quello che provoca infiammazioni e ateromi, ma ha il 60% delle probabilità in meno di ammalarsi di diabete di tipo 2. Una percentuale altissima, eccezionale negli studi. Per realizzare questa ricerca, i ricercatori della Harvard School of Public Health di Boston (Usa) hanno preso in considerazione più di 3mila soggetti seguendoli per un periodo di 20 anni.


Quale sarebbe il principio attivo? Secondo il capo-ricerca G.S. Hotamisligil, le proprietà protettive di latte, yogurt e latticini sono dovute alla presenza nei loro grassi di acido trans-palmitoleico, un acido grasso tipico dei mammiferi ruminanti e perciò non presente nell'organismo umano.


"Anche se è una ricerca osservazionale  -  ha commentato Hotamisligil  -  rivela per la prima volta il collegamento fra l'acido trans-palmitoleico e il rischio di diabete, e dimostra che c'è una differenza quasi tripla di minor rischio di ammalarsi fra gli individui che hanno alti livelli di questo acido grasso nel sangue". 


E dire che i dietologi invitavano tutti a contenere il consumo di latte e derivati perché alcuni studi li avevano collegati all'aumento del rischio di malattie cardiache. "Il problema  -  dice il coordinatore dello studio  -  è che l'acido palmitoleico è presente quasi esclusivamente nei prodotti lattiero-caseari. Questi però spesso sono trattati industrialmente e vi si trovano anche i grassi saturi degli oli vegetali parzialmente idrogenati, che sono stati collegati a un più alto rischio di malattie cardiache".


Ma nelle sovrabbondanti e sbilanciate diete di oggi, “questi acidi cis-palmitoleici sono accompagnati da un'alta presenza di carboidrati e calorie”. E’ normale, infatti, che oggi – a differenza del passato, p.es. nella civiltà contadina – latte e latticini si aggiungono a pasti e a introiti giornalieri troppo ricchi e calorici. “Questo sembra limitare la loro normale funzione protettiva”, ipotizzano i ricercatori.


Però, resta il fatto che quello fornito da latte e latticini è “un effetto protettivo estremamente forte, maggiore di altri fattori conosciuti e utilizzati contro il diabete”. Perciò è lecito dedurne che “il passo successivo – dice Hotamisligil – sarà quello di studiare la possibilità di un suo utilizzo terapeutico nelle persone".

TRANS-PALMITOLEIC ACID, METABOLIC RISK FACTORS, AND NEW-ONSET DIABETES IN U.S. ADULTS. A Cohort Study. Mozaffarian D, Cao H, King IB, Lemaitre RN, Song X, Siscovick DS , Hotamisligil GS. Annals of Internal Medicine 153,12,790-799, 2010 Background: Palmitoleic acid (cis-16:1n-7), which is produced by endogenous fat synthesis, has been linked to both beneficial and deleterious metabolic effects, potentially confounded by diverse determinants and tissue sources of endogenous production. Trans-palmitoleate (trans-16:1n-7) represents a distinctly exogenous source of 16:1n-7, unconfounded by endogenous synthesis or its determinants, that may be uniquely informative. Objective: To investigate whether circulating trans-palmitoleate is independently related to lower metabolic risk and incident type 2 diabetes. Design: Prospective cohort study from 1992 to 2006. Patients: 3736 adults in the Cardiovascular Health Study. Measurements: Anthropometric characteristics and levels of plasma phospholipid fatty acids, blood lipids, inflammatory markers, and glucose–insulin measured at baseline in 1992 and dietary habits measured 3 years earlier. Multivariate-adjusted models were used to investigate how demographic, clinical, and lifestyle factors independently related to plasma phospholipid trans-palmitoleate; how trans-palmitoleate related to major metabolic risk factors; and how trans-palmitoleate related to new-onset diabetes (304 incident cases). Findings were validated for metabolic risk factors in an independent cohort of 327 women. Results: In multivariate analyses, whole-fat dairy consumption was most strongly associated with higher trans-palmitoleate levels. Higher trans-palmitoleate levels were associated with slightly lower adiposity and, independently, with higher high-density lipoprotein cholesterol levels (1.9% across quintiles; P = 0.040), lower triglyceride levels (−19.0%; P < 0.001), a lower total cholesterol–HDL cholesterol ratio (−4.7%; P= 0.001), lower C-reactive protein levels (−13.8%; P = 0.05), and lower insulin resistance (−16.7%, P=0.001). Trans-palmitoleate was also associated with a substantially lower incidence of diabetes, with multivariate hazard ratios of 0.41 (95% CI, 0.27 to 0.64) and 0.38 (CI, 0.24 to 0.62) in quintiles 4 and 5 versus quintile 1 (P for trend < 0.001). Findings were independent of estimated dairy consumption or other fatty acid dairy biomarkers. Protective associations with metabolic risk factors were confirmed in the validation cohort. Conclusion: Circulating trans-palmitoleate is associated with lower insulin resistance, presence of atherogenic dyslipidemia, and incident diabetes. Our findings may explain previously observed metabolic benefits of dairy consumption and support the need for detailed further experimental and clinical investigation
Un altro studio prospettico durato 20 anni valutando malattie e decessi di 2375 soggetti maschili di 45-59 anni di età conferma la “marcata” riduzione dei rischi di diabete e di sindrome metabolica (ipertensione, ipercolesterolemia, sovrappeso ecc.) dovuta al consumo di latte e latticini:
MILK AND DAIRY CONSUMPTION, DIABETES AND THE METABOLIC SYNDROME: THE CAERPHILLY PROSPECTIVE STUDY. Peter C Elwood, Janet E Pickering, Ann M Fehily. Department of Epidemiology Statistics and Public Health, Cardiff University, Cardiff, UK. MRC Epidemiology Unit, Cardiff, UK. J Epidemiol Community Health 2007;61:695-698
Objectives: To report a negative association between milk or dairy consumption and the metabolic syndrome and to examine associations within the Caerphilly cohort.
Setting: A representative sample of men aged 45–59 years in Caerphilly, UK. Participants and data: Data on fasting blood glucose and plasma insulin, fasting plasma triglycerides and high-density lipoprotein cholesterol, body mass index, and blood pressure were used to define the metabolic syndrome in terms of levels of two or more variates within the top 10%. The clinical importance of the syndrome was assessed from 20-year incidence of diabetes, vascular events and deaths. The relationships between the syndrome and the consumption of milk and dairy products was examined using data from both a semiquantitative food frequence questionnaire, and from a 7-day weighed intake record which had been kept by a 1:3 subsample of the men.
Main results: There were 2375 men without diabetes in the cohort. The prevalence of the metabolic syndrome was 15%. Men with the syndrome had significantly increased risks of a subsequent ischaemic heart disease event, death or diabetes. Negative relationships were shown between both the consumption of milk and dairy produce, and the syndrome. Adjusted odds ratio in men who regularly drank a pint [0,5 litri ca] of milk or more daily was 0.38 (0.18 to 0.78) and that for dairy food consumption was 0.44 (0.21 to 0.91). Milk intake showed no significant trend with incident diabetes.
Conclusions: The consumption of milk and dairy products is associated with a markedly reduced prevalence of the metabolic syndrome, and these items therefore fit well into a healthy eating pattern.
(*) NOTA. Tra i nostri progenitori Romani, dediti soprattutto alla pastorizia come in tutte le civiltà antiche, latte e latticini erano alla base dell’alimentazione. Il che probabilmente contribuì a salvare da carenze proteiche il loro tendenziale quasi-vegetarismo. E’ accertato che il piatto nazionale” dei primi secoli era la puls fitilla, crocchette di miglio cotto in abbondante latte. E il rituale pan dolce da offrire agli Dei, o che si scambiavano tra loro gli sposi con la confarreatio, era il libum farreum, fatto di semola di farro, miele e ricotta (da cui le odierne “pizze al formaggio” o panettoni di Terni). Il famoso timballo di lasagne descritto da Catone, la placenta, era composto di strati di lagane di frumento alternate a strati di ricotta. Il piccante e saporitissimo moretum, tipico impasto al mortaio che pastori, contadini, operai e militari spalmavano sul pane per merenda, era a base di formaggio, olio, aglio ed erbe aromatiche. In campagna si era soliti bere latte aromatizzato con lepidium (crescione). Insomma, tutti i piatti tradizionali erano a base di latticini. E, ripetiamo, si trattava di popoli tendenzialmente vegetariani senza saperlo, dunque i latticini erano preziosi per loro. Davvero, solo ignoranti, oppure persone di così debole personalità da diventare ottuse per ideologia, possono negare che il latte e i suoi derivati sono stati uno dei primissimi cibi naturali nella storia dell’Uomo. Tanto più nella nostra cultura (pastorale) greco-etrusco-romana (cfr. Nico Valerio, La Tavola degli Antichi, ed. Mondadori, 1989). Oltretutto è anche ignobile sputare sulla propria culla.

IMMAGINE. Un abbondante yogurt condito con coloratissima frutta di bosco o acidula, dunque ricca di polifenoli e antiossidanti, è il miglior complemento per la zuppa di cereali integrali (p.es, fiocchi di avena o del buon pane integrale) del mattino.

AGGIORNATO IL 7 SETTEMBRE 2015

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11 aprile 2011

Studio: i vegetariani hanno rischi minori di sindrome metabolica.

Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica diabetologica Diabetes Care (nel fascicolo di marzo 2011) prova che una dieta vegetariana è collegata a minori fattori di rischio metabolico e sindrome metabolica.

La sindrome metabolica è un complesso di irregolarità o serie patologie tra loro collegate (tra cui ipertensione, sovrappeso, in particolare giro di vita aumentato, eccesso di trigliceridi, scarso colesterolo HDL, diabete di tipo 2, cioè alimentare, e malattie cardiovascolari).

Lo studio, che conferma numerose ricerche sullo stesso argomento, è stato firmato dai ricercatori Rizzo, Sabaté, Jaceldo-Siegl e Fraser, ed è intitolato "I modelli dietetici vegetariani sono associati ad un minor rischio di sindrome metabolica". E' stato basato sull’esame dei risultati dello studio epidemiologico "The Adventist Health Study 2".

Gli studiosi si sono prefissi lo scopo di confrontare diversi patterns dietetici in relazione ai fattori di rischio metabolico (MRFs) e alla sindrome metabolica (MetS). Perciò sono stati analizzati 773 soggetti con età media di 60 anni scelti tra quelli che avevano partecipato alla grande ricerca sulla comunità religiosa degli Avventisti del Settimo Giorno, nota per favorire la pratica del vegetarismo, e comunque per avere uno stile di vita più omogeneo e salutista rispetto alla popolazione in generale.

Come sempre, i partecipanti hanno compilato un questionario sulle proprie abitudini alimentari, che ha permesso di dividere i soggetti in vegetariani (35%), semi-vegetariani (16%) e non-vegetariani (49%). Tenendo conto dei cofattori rilevanti, è stato usato il modello statistico detto Ancova (Analisi della covarianza) per determinare le possibili associazioni tra i modelli dietetici e i fattori di rischio metabolico: colesterolo HDL, trigliceridi, glucosio, pressione sanguigna e circonferenza della vita. E’ noto tra i cardiologi ma poco noto al largo pubblico che l’aumentata circonferenza di vita, cioè l’obesità addominale, incide notevolmente sulla sindrome metabolica.

I risultati dell’analisi hanno mostrato che, a parità di altre condizioni, il modello dietetico vegetariano era collegato a valori medi significativamente più favorevoli di pressione arteriosa, circonferenza della vita, indice di massa corporea, glicemia e trigliceridi nel sangue, rispetto a quello non-vegetariano.

Perciò, i ricercatori hanno concluso su Diabetes Care che un modello alimentare vegetariano è associato ad un profilo più favorevole dei cosiddetti fattori di rischio metabolico e con un minor rischio di sindrome metabolica, che nei soggetti vegetariani è risultato ridotto di circa i due terzi (66%) rispetto ai non vegetariani. Questo dato sussisteva anche dopo aver considerato gli altri aspetti dello stile di vita e i fattori demografici che potrebbero influenzarlo.

Peccato che l’anticipazione del solo abstract non consenta di valutare nella pratica i tipi di diete vegetariane e non vegetariane esaminati. Nulla si dice nell’abstract, per esempio, sulla presenza o quantità di alimenti fondamentali per ridurre il rischio di sindrome metabolica, come i cereali integrali, i legumi, le verdure e le frutta. Lo studio si è concentrato sulla pura differenza tra “dieta vegetariana”, “dieta semi-vegetariana” e “dieta non-vegetariana”, nella presunzione che questa differenza fosse significativa, in uno stile di vita ritenuto comune com’è tipico della regola degli Avventisti.

VEGETARIAN DIETARY PATTERNS ARE ASSOCIATED WITH A LOWER RISK OF METABOLIC SYNDROME: THE ADVENTIST HEALTH STUDY 2
Rizzo NS, Sabaté J, Jaceldo-Siegl K, Fraser GE. Department of Nutrition, School of Public Health, Loma Linda University, Loma Linda, California. Diabetes Care. 2011 Mar 16. [Anteprima di stampa]

OBJECTIVE. The study objective was to compare dietary patterns in their relationship with metabolic risk factors (MRFs) and the metabolic syndrome (MetS).
RESEARCH DESIGN AND METHODS. Cross-sectional analysis of 773 subjects (mean age 60 years) from the Adventist Health Study 2 was performed. Dietary pattern was derived from a food-frequency questionnaire and classified as vegetarian (35%), semi-vegetarian (16%), and non-vegetarian (49%). ANCOVA was used to determine associations between dietary pattern and MRFs (HDL, triglycerides, glucose, blood pressure, and waist circumference) while controlling for relevant cofactors. Logistic regression was used in calculating odds ratios (ORs) for MetS.
RESULTS. A vegetarian dietary pattern was associated with significantly lower means for all MRFs except HDL (P for trend < 0.001 for those factors) and a lower risk of having MetS (OR 0.44, 95% CI 0.30-0.64, P < 0.001) when compared with a non-vegetarian dietary pattern.
CONCLUSIONS. A vegetarian dietary pattern is associated with a more favorable profile of MRFs and a lower risk of MetS. The relationship persists after adjusting for lifestyle and demographic factors.

AGGIORNATO IL 19 FEBBRAIO 2015

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